TRA, I KIRDI DELLA MONTAGNA
Articolo del Padre Henri Pélicier
In Missioni OMI
Mars 1979, pp.40-47
Si dà, oggi, il nome di Kirdi - che in arabo significa infedele cioè non-mussulmano - alle numerose etnie, animiste, di origine sudanese, che abitano il Camerun settentrionale : Mafa, Massa, Kapsikì, Mundang...
I Kirdi della montagna, di cui parla quest'articolo, abitano nella zona di Mora (a circa 50 Km da Mokolo, dove lavorano attualmente due OMI italiani, i PP. Da Ros e Brandi) ed appartengono a parecchie razze : Zulgò, Muyang, Mada, Mandara, ecc., spesso divise e in contrasto fra loro, anche se dominate dai mussulmani.
In sedici anni di apostolato, svolto con stile tipicamente africano; un camerunese meridionale farà breccia nel loro spirito.
Simone, parti!
I Kirdi : una popolazione poco conosciuta e primitiva del Nord Camerun; animisti dispersi tra
mussulmani ben più potenti e organizzati.
Neppure lui, Simone Mpecké, africano puro sangue del Camerun meridionale, ne aveva sentito mai parlare - almeno così gli pareva - prima del 1954. Eppure era un intelligente e dinamico pastore d'anime, con la responsabilità di una grande parrocchia di Douala, la più popolosa e prospera città marittima del Camerun meridionale.
Quel nome nuovo di gente sconosciuta, lontana un migliaio di Km, e che doveva essere tanto povera e bisognosa, gli accese in cuore una luce ed una speranza: conoscerla da vicino, amarla e aiutarla. Ben presto gli maturò dentro il proposito: Sarò il loro missionario.
Dal 1946 lavoravano, nel Camerun settentrionale, i Missionari Oblati di Maria sotto la guida di Mons. Plumey omi, vescovo dell'immensa diocesi di Garoua (183 mila kmq) che, più tardi, sarà divisa in tre: Garoua, Maroua-Mokolo e Yagoua. Don Simone gli scrive manifestandogli il suo desiderio: ma ne riceve una risposta interlocutoria: un prete africano che abbandona la sua popolosa parrocchia africana per andare missionario in altra zona del continente nero? Sarebbe una stupenda novità, qualcosa di veramente « profetico ». Ma la diocesi di origine e il suo vescovo avrebbero potuto accettare un sacrificio così grande?...
Don Simone è un uomo di fede, di pazienza e di carattere. E rinnova la richiesta al suo superiore diretto, Mons. Mongo„ primo vescovo camerunese di Douala che, un bel giorno, lo chiama in episcopio.
- Simone, gli dice, da mi chiedi di andare nel Nord Camerun. Io... non ti perme andarvi: sono io che ti mandò. Parti! Quando, lassù, ti domanderanno perché hai lasciato Douala per andare così lontano all'estremità opposta del Paese; risponderai semplicemente: Il mio vescovo, Mons. Mongo, mi ha mandato qui perché è convinto che la nostra Chiesa Camerunese non sarà piantata solidamente fino a quando non poggerà buone gambe: quella del Sud e quella del Nord -.
Simone tocca il cielo col dito: non è solo lui che, ispirato da Dio, vuol partire; è Dio che lo manda, tramite il vescovo.
Tutti diffidenti
Nel febbraio del 1959 don Simone arriva a Garoua.
Plumey e gli Oblati lo accolgono con gioia e vogliono che egli si senta perfettamente libero. D'altra parte, la scarsità di personale missionario non permette loro di offrirgli un compagno per attuare i suoi progetti.
« Mons. Plumey, scrive Simone, mi dice di andare a perlustrare il distretto di Mora per trovare un posto adatto alla fondazione di una missione. Ma prima è bene fare una capatina dai Piccoli Fratelli di P. De Foucauld a Mayo-Uldemé. Detto fatto. A Uldemé, fratel Giacomo mi dice che, nella zona, vi sono varie tribù, ma ce n'è una particolarmente aperta: quella dei Mada. E aggiunge: sarà bene cominciare con loro poi, per mezzo dei Mada, ci sarà la possibilità di raggiungere le altre tribù.
« D'accordo con un medico europeo, il dott. Maggi oriundo italiano che ha in animo di fondare un ospedale, scelgo per la nuova missione un posto favorevole: è in pianura, ma a due passi dalla montagna e, soprattutto, ha della buona acqua: Tokombéré.
«Gli inizi non furono facili, perché tutti si mostravano diffidenti, tutti sia i mussulmani che i Kirdi. I mussulmani infatti, sapendo che venivamo per i Kirdi, erano tutt'altro che entusiasti all'idea che avremmo lavorato per la loro evoluzione e promozione. I Kirdi, d'altra parte, ci guardavano con diffidenza per due motivi soprattutto: perché eravamo vestiti, mentre essi son quasi nudi e perché abitavamo in pianura regno incontrastato dei mussulmani.
« Le tribù montanare dei Kirdi eran divise tra loro e, spesso, nemiche. Per esempio i Muyang erano in guerra coi Mada, tanto che se un Mada riusciva a catturare un Muyang, lo vendeva presto a qualche Zulgo, che a sua volta lo avrebbe venduto ai Mandara ».
Baba Simon, come ben presto sarà affettuosamente chiamato dalla sua gente, non si perde di animo. Prima da solo, poi con un sacerdote africano e infine con altri provenienti dall'Europa, comincia ad attuare il suo piano di costruzioni per attirare la gente: prima la scuola, poi il
piccolo presbiterio, la casa delle Suore africane e la scuola di lavori domestici per le ragazze. Infine la bella chiesa costruita con pietre tirate giù dalla montagna. L'altare sarà costituito da una vecchia pietra sacra di un villaggio; perché, nota Baba Simon, « queste nostre montagne hanno delle pietre sacre, esattamente come le avevano i nostri lontani avi in Europa; ed è giusto che noi le 'ribattezziamo' per il culto del vero Dio ».
Scoperte impressionanti
Baba Simon, vero figlio dell'Africa, si rende conto che nell'anima di questi montanari ci sono dei valori da scoprire e da sviluppare per potere, pian piano, costruire un cristianesimo autentico ma veramente africano. E le sue scoperte vanno al di là di ogni aspettativa, tanto che gli fanno scrivere:
"Se non avessi avuto Gesù Cristo da far loro conoscere, da tempo sarei tornato a casa, nel Sud Camerun. Gesù è il culmine, la vetta, lo Ngar come si dice in lingua mada, la testa della creazione; senza Cristo la creazione sarebbe un corpo senza testa. E' stupendo che coll'Incarnazione Dio abbia innalzato l'uomo sino a sé in Cristo. Se Gesù Cristo non fosse appunto questa testa, io sarei tornato a casa perché ho scoperto che i Kirdi hanno una fede come gli Ebrei. I Kirdi sono, in Africa, quelli che hanno la più perfetta nozione di Dio. Tutto quello che io insegnavo loro su Dio creatore, essi lo sapevano già. Un giorno ho mandato un catechista fra gli Zulgo con questa precisa consegna: 'Parla loro di Dio che ha creato tutto, che ha fatto tutto: la montagna, il miglio, la pianura... Bisogna che essi credano in Dio e che lo amino'. Al suo ritorno il catechista mi dice: 'Ho detto tutto quello che mi hai insegnato. E sai cosa mi hanno risposto? Eccolo: Sapevamo già tutto quello che ci hai detto; non valeva proprio la pena che facessi tanto caminino'. In realtà i Kirdi della montagna, come tutti gli africani, credono in un unico Dio. Ma gli altri lo pensano come un Dio lontanissimo e altissimo, che non si occupa di noi. Nel sud non ho mai visto mio padre pregare Dio Invece per i Kirdi Dio è Padre: e non soltanto di tutti gli uomini in generale, ma il padre mio, come un padre cioè che ha molti figli ciascuno dei quali sa di esserne conosciuto e amato personalmente. E conoscendo Dio come Padre, i Kirdi lo pregano, gli offrono sacrifici, lo festeggiano magari con la birra... E' meraviglioso per dei poveri animisti! Ma quando un giorno parlo, ad un vecchio lebbroso, della Trinità, di un Dio in tre Persone - Padre, Figlio e Spirito Santo -, egli confessa: 'Toh, questo davvero non lo sapevo'».
Dove e come questi montanari primitivi abbiano attinto verità così alte e meravigliose - non solo la creazione ma anche Dio Padre - è un mistero. Certo non dai mussulmani che li circondano, né dai cristiani dei dintorni allora quasi sconosciuti ma da qualche loro vecchio «saggio» venuto a contatto con qualche fiorente cristianità del Camerun meridionale.
Vangelo alla mano
"Dal punto di vista catechistico ho cominciato col Vangelo. Sì, ho cominciato semplicemente
a raccontare il Vangelo nei vari villaggi".
Nei vari villaggi: chi conosce la zona si rende conto cosa significhi questa semplice espressione, appena accennata da Baba Simon. Significa viaggi interminabili sotto il sole. dardeggiante, per sentieri tutti sassi e talvolta buoni solo per le capre, attraverso le famose «terrazze», che richiedono ai montanari dei veri prodigi di ingegnosità e di costanza per tenere a bada il terreno coltivabile che, puntualmente, viene portato a valle durante la stagione delle piogge. Viste da lontano queste «terrazze» ti danno l'impressione di un'immensa gradinata sulla cui vetta sorgono i villaggi, con un certo numero di gruppi di casette (circondate da una palizzata, su cui emergono i tetti di paglia) denominati saré.
Quante volte Baba Simon ha percorso quei sentieri ed ha visitato i villaggi ed i singoli saré! E, dopo intere giornate trascorse a catechizzare, passa la notte dormendo su una stuoia, nella capanna riservata agli ospiti. Il suo sistema catechistico? Presentare e spiegare il Vangelo, specialmente le parabole che fanne tanta presa su queste anime semplici.
Ma egli non può stare dovunque e non basta una semplice spiegazione. Perciò sceglie dei ragazzi più svegli, che si prestano ad imparare a memoria il Vangelo per poterlo ripetere agli altri. E man mano che riesce a formare i catechisti, spiega loro a parte il Vangelo domenicale, perché facciano l'omilia nel proprio dialetto.
Far maturare, non sradicare
Più e meglio dei missionari europei, questo apostolo camerunese avverte la necessità e le difficoltà dell'evangelizzazione, e il rischio di metter da parte i valori locali della sua gente. Vuole, perciò solo illuminare, aiutare, attendere con pazienza la maturazione senza mai sradicare o snaturare quanto di valido e di buono esiste nella mentalità e nella cultura africana.
"Divenire cristiano, egli scrive, per un Kirdi costituisce una piena rottura col suo passato, molto più profonda di quella richiesta per farsi mussulmano. L'Islam, infatti, può agevolmente accordarsi con non pochi costumi ancestrali: permette la poligamia, la festa e i sacrifici dei montoni e tante altre cose. Ma per un cristiano è ben diverso. La religione cattolica li lancia verso la cosiddetta civiltà occidentale che non è la loro e non quadra coi loro sacrifici di montanari. E così un capo - di nome Nglissa - non può mandare il figlio alla scuola perché sarebbe un tradire tutta la montagna: il ragazzo sarebbe perduto per il clan perché forse diventerà cristiano o, più facilmente mussulmano. E lui, il capo, con tanti altri, sente che noi - cristiani o mussulmani - vogliamo attirarli nella nostra cultura per annientarli. Non sanno come salvare la propria identità: ecco loro dramma ».
Una tragedia di sangue
Baba Simon conosce il loro dramma e lo rispetta, pur facendo di tutto per risolverlo con saggezza africana.
Un episodio lo dimostra all'e videnza. L'11 marzo 1973 una spaventosa sciagura sconvolge tutto il Nord: l'auto che da N'Gaunderé riporta a casa per le vacanze gli studenti, si trasforma in un rogo spaventoso; undici periscono tra le fiamme.
Una delle vittime, di razza Muyang, era stato mandato in collegio da Baba Simon. Alla tremenda notizia i parenti e non pocchi del loro villaggio scendono alla missione per gettare sul missionario la responsabilità dell sua morte. Non è forse lui che ha mandato a studiare, così lontano, quel povero ragazzo?
Circondano minacciosamente la missione urlando e imprecando. I più scalmanati passano a vie di fatto facendo a pezzi du finestre e una porta. Un guerriero, nella chiesa, in palese atto di sfida e di offesa al Dio dei cristiani, lancia verso il cielo la zagaglia che resta conficcata nella volta.
Il cuore del missionario piange per la morte degli innocenti e per quella manifestazione, ma resta calmo. Qualche giorno dopo, gli anziani tornano a scendere dalla montagna: hanno capito che Baba Simon non ha alcuna colpa - lui che ha sempre agito per loro bene, anche se non hanno voluto accettare il suo Vangelo -, che forse ha sofferto quanto loro e che non meritava quella chiassata. Vogliono far la pace.
Il Padre li accoglie, senza recriminare. Dice soltanto: « I danni materiali, li vedete; non hanno importanza, porta e finestre saranno rifatte. Ma... venite con me ». Li accompagna in chiesa, addita loro la zagaglia ancora fissata sulla volta e chiede loro con amarezza: « Guardate: e l'offesa fatta a Dio? Come fare a ripararla? Beh, io non lo so. I vostri anziani, i vostri saggi, loro sanno. Tornate al villaggio e vedete tra voi ». Nessun rimprovero, nessun lamento; solo un richiamo alla loro coscienza, alla saggezza dei loro anziani, per la grave offesa contro Dio. Lo raccoglieranno?
Alcuni giorni dopo, ecco gli anziani e le famiglie. Portano un montone e lo sgozzano davanti alla chiesa: è il loro sacrificio di riparazione. Baba Simon osserva e lascia fare: rispetta le loro credenze e il loro gesto di espiazione.
Sembrava tutto finito. Lo pensava anche lui. E invece no: con sua grande sorpresa e tanta gioia, qualche giorno dopo vede spuntare un gruppetto di uomini che, per la prima volta, vengono ad ascoltare la parola di Dio! Il rispetto per le loro tradizioni e la loro vita religiosa aveva fatto breccia e li aveva ravvicinati alla missione molto più di tutti i suoi sforzi precedenti.
Lui, africano di sangue e di razza, ha sempre tenuto a rispettare i valori autentici africani, a purificarli gradualmente e paziamente, in vista di un cristianesimo e di una chiesa autentici, ma veramente africani, artefici di un progresso sociale e di fratenita tra le varie razze.
Vi dò la mia chiave!
Per far maturare la sua gente Baba Simon pensa alla scuola come mezzo indispensabile. Il suo primo impegno è quello di costruirla e poi di far tutto perché funzioni a dovere, come il meglio delle altre scuole del distretto. La zona è mussulmane ed occorre quindi far i conti coi notabili locali. Con la sua lealtà e la sua carica di simpatica amicizia, tesse con loro buoni rapporti a cominciare dal capo.
Il capo cantone Tikere, egli annota, è un uomo straordinariamente buono e saggio. Con lui non ho mai avuto noie, le nostre relazioni sono sempre andate migliorando fino alla vechiaia di trambi. E siccome la missione è nel suo cantone, posso affermare di non aver mai avuto molte difficoltà coi mussulmani ».
Ma bisognava fare i conti anche con la gente perché mandasse i figli a scuola. Perciò soleva ripetere: « La scuola è una chiave, una specie di chiave che apre tante porte. Io ve la regalo e così potrete aprire tante porte: avete la mia chiave! Ma è meraviglioso! Dove sinora non potevo arrivare, adesso ci posso andare. E siccome ti ho dato la mia chiave non ti
vengo più dietro per dirti: Passa di qui! Anzi, guai a me se volessi influenzarti, perché facilmente tu aprirai un'altra porta.
Forse al principio, nei primi corsi, vi diranno quel che bisogna fare o non fare. Ma verrà il giorno in cui sarete capaci di far da voi: l'istruzione diventa una chiave buona per tutte le porte; e potrete giudicare da voi stessi e per il vostro avvenire, quale porta dovete aprire. Certamente se avrete dei dubbi, potrete chiedere: 'Tu che conosci il mio passato, la mia situazione e il mio carattere, puoi darmi un consiglio? E ve lo darò, ma sarà solo un consiglio.
« Perciò ho fatto di tutto per dare un'istruzione di base veramente valida. Ho voluto che la mia scuola fosse alla pari con le altre del Camerun, anzi un tantino superiore, perché ho sempre avuto un... chiodo in testa: io sono qui l'unico prete camerunese, non sono un europeo e il francese non è la mia lingua materna. Se la mia scuola, con l'aiuto delle Suore pure esse autoctone, non dovesse andar bene, saremmo spacciati. Se invece va bene, si potrà dire quel che si vorrà, ma saranno tutti obbligati ad ammettere che cammina ed è valida ».
I risultati rispondono ai suoi sforzi e alle sue speranze. E lui a commentare: « Ma i nostri montanari sono intelligenti! Posti nelle stesse condizioni degli altri, riescono bene come qualunque altro camerunese. E forse anche meglio! Quelli del sud che ho visto nella mia scuola, quando ero laggiù, non erano i primi e non ne ho visto uno che sia poi andato fuori del distretto col suo diploma ».
Far in modo che i suoi ragazzi di origine animista diventino capaci di partecipare alla vita locale come tutti gli altri: ecco il suo sogno. Quando alcuni hanno troppa difficoltà a frequentare le scuole secondarie, egli li manda altrove, in buone scuole private che danno ogni garanzia.
E oltre alla scuola, quanto, altro lavoro, per tutti, ma specialmente per la gioventù. Non solo a parole, ripeteva: « Insegnare loro l'igiene, curare le piaghe al dispensario, accogliere ragazzi e ragazze alla scuola, insegnar loro tutto, dir loro l'amicizia che ho per essi... questo per me è cristianesimo »
Prendi il mio posto
Baba Simon sente ormai il peso degli anni e delle malattie: ha vissuto in pienezza la sua giornata. La missione e la scuola sono ormai ben piantate, la comunità cristiana va affermandosi ed egli pensa che c'è un 'modo semplice di assicurarne la continuità: affidarne la direzione al suo giovane collaboratore, P. Giovanni Marco Ela, anche lui africano.
Comincia con mettergli in mano quello che ha di più caro' cioè le tribù dei Mada e dei Zulgo. E poi pian piano, tutto il resto, senza traumi e rimpianti con semplicità evangelica: «Giovanni Marco, prendi il mio posto»!
E colla certezza che la sua opera continuerà, può morire sereno il 13 agosto 1975.
I missionari Oblati, al cui fianco ha lavorato per 16 anni, i suoi cristiani e tutta la sua gente Kirdi - anche quella non ancora decisa ad abbracciare il Vangelo - lo ricordano con affettuosa venerazione e gratitudine. Baba Simon, il primo sacerdote africano del Nord Camerun, vive tra loro.
I giovani camerunesi in particolare, possono ripetere a buon diritto: « Tra tutti quelli che abbiamo conosciuto - sacerdoti, fratelli e laici; quasi tutti europei -, uno dei migliori è Baba Simon, africano come noi! »
Enrico Pélicier omi (Camerun)
« Ussé, Ussé, Baba! »
Giovanna, infermiera a Tokombéré, alcuni mesi dopo la morte di Baba Simon, incontra il vecchio Didgan, ancora animista. Tra l'altro parlano del grave lutto che ha colpito tutta la gente della montagna con la scomparsa del missionario. E l'infermiera gli offre una foto-ricordo.
Il vecchio la prende con le due mani ed esclama: « Ussé, Ussé, Baba, Baba Simon! » (Ussé è una parola di saluto e di ringraziamento); le sorride, muove la testa e le fa tutto un lungo discorso come se la foto gli avesse portato non l'immagine ma la presenza viva del defunto.
Si avvicina una delle sue mogli, che afferra la foto e ripete con fervore - una diecina di volte - la stessa affermazione: « Ussé, Ussé, Baba Simon! ».
- E ora, chiede un po' provocatoriamente Giovanna, dov'è Baba Simon?
- Ci sono due cose, risponde dopo un momento di silenzio il vecchio: il corpo e lo spirito. Il corpo di Baba Simon è come il miglio che resta a terra, come l'erba che non si raccoglie o un albero che cade: diventa terra. Lo spirito invece va con Jigla (Dio) e vive con lui.
- Come mai vive con Jigla?
- Jigla, sentenzia il vecchio, nessuno l'ha visto e nessuno può dire come si vive con lui... La vita continua: io, Didgan, ho dei figli che hanno dei figli; quando morrò continuerò a vivere in loro.
- E Baba Simon che non aveva figli?
- Baba Simon è il padre del nostro spirito; e lo spirito non muore mai!